Destinazione: casa in affitto su Airbnb in un posto sperduto nella penisola di Izu, Giappone.
Partenza: stazione ferroviaria, area dei taxi.
Diluvia.
Il primo tassista sembra uno di quei personaggi tonti e un po’ malvagi degli anime, tracagnotto, coi capelli a spazzola e un po’ unto. Gli mostro Google Maps, dopo essermi agganciato al WiFi di chissà chi, lui strabuzza gli occhi e si mette a ridere. Non c’è verso di andare fino a là, credo dica, mentre fa gesti a ripetizione per farsi capire perché non spiccica una parola d’inglese.
Andiamo avanti così per cinque minuti, gli mostro l’indirizzo, la mappa, il percorso suggerito da Google, perfino StreetView, ma niente. Lui ride. Entra in auto e ride, esce e ride, torna dentro parla alla radiolina e ride, esce si gratta la testa mi guarda e ride. Penso che dormiremo in stazione per sempre, che ormai è notte e amen è andata così, 10 chilometri tra le colline al buio un po’ a caso mica puoi farteli, in più la pioggia.
Dal nulla, o da una dimensione parallela migliore della nostra, arriva un’anziana signora elegantissima, che parla un ottimo inglese. Mi chiede qual è il problema, si mette a fare da interprete col tassista burlone, prova a tradurgli l’indirizzo, che comunque non è un vero indirizzo perché in Giappone non ci sono. Lui ride un po’ meno, ma non c’è niente da fare lo stesso, le informazioni su Airbnb non bastano per capire dove cavolo sia la casa.
Arriva un altro tassista, questo tutto serio e azzimato, ma ancora nulla. Ne arriva un terzo e niente, la signora è sempre più in ansia e preoccupata per il destino di una manciata di stranieri che ha appena conosciuto. Si chiama Yoko.
Yoko prova a telefonare a chi ci ha affittato casa, ma il numero su Airbnb non funziona e ai messaggi sulla app non risponde. Yoko allora chiama suo marito, poi gli dà il numero e mette giù. Mi richiama tra poco, dice, e infatti tre minuti dopo la richiama. Grazie immagino a conoscenze millenarie tenute segrete a noi sprovveduti occidentali, il marito ha trovato un altro numero, di un’amica dell’host. Chiamatela subito, ci dice Yoko, poi ci ripensa e chiama lei. Sarà passata mezz’ora dal primo contatto col tassista bislacco, che intanto ha lasciato perdere e se n’è andato.
L’amica dell’host capisce il problema, si becca anche qualche rimprovero da Yoko, credo, che poi me la passa. Ti mando un file con i passaggi da seguire punto per punto per arrivare alla casa, mi dice. E così arriva un PowerPoint con 17 slide con tanto di frecce e fotografie sulla strada da seguire. Lo mostro a Yoko, che tutta contenta ci ferma un taxi spiegandogli di seguire le istruzioni. Poi come era arrivata, Yoko se ne va, Mary Poppins in questa terra futuristica.
***
Il tassista è magro magro, con la cravatta e occhiali spessi, una versione giapponese di Milhouse Van Houten.
Sono seduto sul sedile del passeggero e gli mostro il mio iPhone con le istruzioni sopra. Anche Milhouse non parla una parola d’inglese, ma è molto volenteroso e consapevole di fare il lavoro più importante del mondo (ogni giapponese ha questa consapevolezza). Segue le istruzioni e mi fa gesto di far scorrere le slide, il telefono non lo tocca mai perché è mio, sarebbe un’invasione dei miei spazi. Solo che così non è pratico per niente, per lui. Provo a farglielo capire a gesti, ma niente: è tesissimo, in ansia da prestazione, suda nonostante la temperatura polare del condizionatore in auto. Quando fa un’altra volta il gesto col dito per farmi scorrere le slide, avvicino il telefono al suo dito, lui capisce, prende confidenza e inizia a fare da solo. Sorride, ma ha un po’ l’aria di uno che avrebbe preferito dire di no e non prendersi tutta quella responsabilità.
Continua a piovere, il taxi percorre strade sempre più inerpicate, Milhouse va piano, confronta le foto delle slide con la strada che ha davanti, ha qualche esitazione, accosta, poi riparte. Alla fine, stremato e dopo innumerevoli sbuffi di ansia, avvista la casa giusta. Gli facciamo un sacco di feste, gli lasciamo qualche yen in più, non capisce, gli scrivo l’importo diverso sul mio telefono e aggiungo l’emoji del regalo, e alla fine sembra felice, forse di avercela fatta più di tutto.
Era dai tempi di Fukushima che il Giappone non conosceva una crisi simile.