Qualche giorno fa ho fatto questo piccolo sondaggio su Twitter.
Le quattro aziende tra cui scegliere sono tra le più grandi e ricche al mondo, e trattano i dati di centinaia di milioni di persone, in molti casi miliardi. Prima ancora di fare “Twitta” sapevo che Facebook avrebbe ricevuto meno voti di tutte, ma non avrei immaginato che potesse raccogliere ZERO preferenze.
Tra i quasi 500 partecipanti al sondaggio, nessuno ha indicato Facebook come servizio verso cui avere fiducia quando si tratta di gestire i propri dati.
Ora vi vedo, lì davanti allo schermo, mentre storcete il naso, e in parte avete ragione. Un sondaggio su Twitter non è rappresentativo, le persone che hanno risposto seguono quasi tutte il mio profilo (grazie) e molte di loro hanno idee chiare su Facebook e privacy: come me, mantengono un certo scetticismo, diciamo. È però notevole che nessuno, nemmeno un bastian contrario, abbia scelto di indicare Facebook.
Che cosa ci dice il piccolo sondaggio? Che nessun PR del più grande social network al mondo mi segue, e non saprei bene come prenderla. Ma soprattutto indica quanta fiducia abbia perso Facebook negli ultimi tempi, soprattutto per quanto riguarda la privacy. Il dato empirico e alla buona del mio sondaggio è confermato da rilevazioni e studi molto più scientifici: le persone usano sempre meno Facebook, molti hanno disinstallato l’applicazione dai loro smartphone e c’è chi ha preferito chiudere definitivamente il proprio account, preoccupato dagli scandali recenti.
Intendiamoci, Facebook non è mai stato un servizio esemplare per la tutela della privacy. Nei suoi primi anni di esistenza, quando il social network aveva una prateria davanti a sé di opportunità e pochissime restrizioni legali (negli Stati Uniti le cose non sono cambiate molto, in Europa è andata meglio), Facebook si mise a raccogliere gigantesche quantità di dati sui suoi iscritti, cambiando a proprio piacimento le regole sulla privacy più volte, e permettendo alle applicazioni di terzi di attingere a quei dati, senza curarsi più di tanto di dove potessero andare a finire (il caso Cambridge Analytica ci dice qualcosa).
Nella migliore delle ipotesi, per anni ci fu una sottovalutazione del rischio, nella peggiore una scelta deliberata per massimizzare i ricavi, soprattutto derivanti dagli annunci pubblicitari personalizzati sui gusti degli utenti. Il motto dei primi tempi di Facebook, “Move Fast and Break Things”, col senno di poi era una premonizione del disastro in cui si stavano infilando Zuckerberg e i suoi. Da qualche tempo il motto è diventato un più soporifero “Move fast with stable infrastructure”, un riferimento all’affidabilità della struttura che tiene in piedi il social network, ma comunque distante dalle idee di “tutela” e “privacy”.
La recente introduzione del nuovo regolamento privacy dell’Unione Europea ha imposto a Facebook, come a tutte le altre società di Internet, di rivedere le proprie politiche sulla tutela dei dati personali, chiedendo – per esempio – consensi espliciti per il loro utilizzo. Poteva essere l’occasione buona per cambiare approccio e dimostrare una maggiore attenzione ai propri utenti, ma Facebook ha scelto una strada diversa, con schermate per rendere il consenso degli utenti una scelta pilotata (Google e Microsoft in questo non sono state da meno).
Tra settembre e ottobre, Facebook ha svelato di avere subìto un attacco informatico che ha interessato 30 milioni di utenti (inizialmente ne aveva stimati 50 milioni). Rapidamente scalzata da altre notizie, la vicenda non ha avuto il rilievo che meritava, nonostante fosse il più grande furto di dati noto nella storia del social network. Nei giorni seguenti Facebook ha infatti ammesso che, per circa la metà di quei 30 milioni, il furto non ha riguardato solamente le informazioni personali (nome, cognome, email, genere, religione, numeri di telefono, ecc), ma anche le attività svolte sul social network, compresi i luoghi in cui era stato fatto check-in (l’opzione per condividere la propria posizione sul social network). Pensate alle cose che cercate su Facebook e ai posti dove andate, a cosa dicono di voi, e ora immaginate che le stesse informazioni finiscano in una gigantesca lista assieme ai vostri dati personali.
Rischi sullo scambio di dati sottovalutati per anni, ripetuti scandali, l’invadenza di annunci pubblicitari sempre più personalizzati e ripetuti fallimenti nel migliorare le cose, nonostante le promesse, hanno portato a una maggiore sfiducia nei confronti di Facebook. Un numero crescente di utenti non si fida del sistema, non sa bene dove siano i suoi dati e chi li possa vedere, legge articoli sempre più critici e pessimistici (ok, con questo fa più uno) e finisce con l’usare sempre meno Facebook o cancella l’iscrizione, volgendosi verso altri social network che trova più semplici e amichevoli come Instagram, magari senza realizzare che quel servizio è comunque di Facebook e non è un mondo completamente a parte. Meno tempo trascorso sul social network significa meno ricavi con la pubblicità e un rallentamento della crescita, che ormai sembra essere inevitabile.
Questo naturalmente non significa che Facebook scomparirà o fallirà miseramente, o che Zuckerberg smetterà di essere di fatto il leader di un’entità sovranazionale con miliardi di iscritti in giro per il mondo. Condivido però l’idea che le classiche diffidenze verso un servizio che usa i tuoi dati siano diventate qualcosa di più, che quel rapporto di fiducia – per quanto labile – si sia rotto e non solo per i più attenti ai temi della privacy. Ricostruire quel rapporto è la vera sfida di Facebook, verso la quale sembra essere totalmente impreparato: negli anni ha raccolto e messo insieme formidabili manager per massimizzare la resa dei ricavi, senza che ci fossero grandi valutazioni sulle implicazioni di un servizio globale che mette ormai insieme due miliardi di persone. Non sarà sufficiente la tecnica per risolvere il problema o un’altra trimestrale con utili stellari.
Le prospettive non sono molto rosee. La mancanza di fiducia sembra avere contagiato gli stessi responsabili del social network. L’ultimo prodotto annunciato da Facebook, Portal, è uno schermo da tenere in casa per fare le videochiamate. Facebook ha deciso di venderlo con un tappino, che può essere messo davanti alla videocamera per essere sicuri che nessuno si metta a spiare nelle case degli altri. Te lo vendono direttamente insieme al loro prodotto, il tappino, perché chi si fiderebbe di tenere in casa un prodotto con una videocamera sempre collegato al loro social network? Già.