Mi chiamava per nome, ma mi dava sempre del lei, per tenere la giusta distanza tra professore e studente. Alto e magrissimo, eppure con un vocione da baritono, a ricevimento mi raccontava aneddoti e storie incredibili sulle sue esperienze da inviato di guerra, come se fossero le cose più naturali e normali al mondo, non così diverse dall’aspettare il tram alla fermata. Mimmo Càndito fu il primo a dirmi di perseverare con il giornalismo, a mettermi alla prova e ad avere sempre qualche consiglio da suggerirmi, talvolta ruvidamente e senza tanti giri di parole.
Un giorno, ascoltando da un amico le sue frustrazioni per il fatto che il suo relatore fosse sfuggente e non rispondesse mai alle email, raccontai quanto fossi soddisfatto del mio, forse perché non era un professore come gli altri e faceva il giornalista in giro per il mondo. Rispondeva sempre, anche dai posti più impensabili:
Da: Mimmo Càndito
Oggetto: Tesi Menietti
Data: 25 giugno 2004 07:08:39 GMT +02:00
A: Emanuelecaro emanuele, la ringrazio per il msg. lo leggo oggi da una postazione di fortuna in kazakhstan. non mi pare ci siano problemi per la sua tesi. in bocca al lupo.
mc
Dopo l’università ci perdemmo di vista, giusto qualche mail ogni tanto, ma era sempre un piacere ritrovarlo sulle pagine della Stampa. Oggi, per ricordarlo, sono andato a rileggermi come si raccontò qualche anno fa nel libro Il braccio legato dietro la schiena, penso che le sue parole siano il modo migliore per ricordarlo e ringraziarlo, ancora una volta.
Ho cominciato a sentirmi giornalista a 17 anni, quando con altri ragazzi, a Reggio Calabria, fondammo un mensile, “Calabria ’61”. Erano presunzioni adolescenziali, ma mi disegnarono un percorso di vita. Comunque, prima di diventare davvero un giornalista, ho fatto il contadino nello Yorkshire (per imparare l’inglese), l’operaio metallurgico a Düsseldorf (per vivere l’esperienza degli emigrati), l’impiegato comunale a Genova (per mantenermi agli studi) e l’abusivo a “Il Lavoro” (per poter andare gratis al cinema, come critico). Poi mi chiamarono da “La Stampa”, perché qualcuno leggeva quello che scrivevo sul “Lavoro”. Dissi che accettavo di lasciare il mare e andare a Torino soltanto se mi facevano viaggiare per il mondo. Incredibilmente, dissero sì.
In 35 anni di reportage senza frontiera ho raccontato i popoli del mondo, le loro storie, le speranze ovunque sempre nuove, e la tragedia della guerra, che non è affatto quella cosa che si vede alla tv.
Ho vinto parecchi premi giornalistici (e ne sono orgoglioso quasi quanto per i titoli da campione che, da ragazzo, vinsi nella scherma, nell’atletica e nella pallacanestro). Ho scritto alcuni libri. Insegno all’università.
Ho vissuto.
Volevo fare il giornalista per capire, e per aiutare e capire. Il primo obiettivo è stato un fallimento totale, al secondo mi ci sono forse avvicinato un po’, almeno a giudicare da quanto m’hanno scritto in questi anni molti generosi lettori.
Quando vado in guerra, lascio tutto in ordine a casa. Non si sa mai. E parto sempre con una paura fottuta. Come tutti.Mimmo Càndito