Se siete a Torino e verso sera vi capita di passare dalle parti di via Po, entrate nel cortile del Rettorato dell’Università e date un’occhiata a “Bwindi Light Mask“, l’installazione dell’artista Richi Ferrero. Vi ritroverete a osservare quaranta maschere identiche, e un po’ inquietanti, ispirate a quelle fatte dalle popolazioni del Parco nazionale impenetrabile di Bwindi, nell’Uganda sud-occidentale.
Il rito prende vita quando la luce artificiale muta i cromatismi delle maschere dando vita ad una danza ferma, sostenuta dai suoni bi-vocali dei Tuva (Asia centrale), che a sua volta esegue un dipinto d’ombre. Una ritualità nuova prende forma attraverso archetipi antropologici universali: la maschera africana da sempre tramite tra l’uomo e il soprannaturale, i canti armonici tipici della tradizione sciamanica dei Tuva e la luce. L’aspetto più interessante di questo rito senza tempo sta proprio nel legame tra luce e suono, spesso presente nelle culture antiche nelle quali il senso della performance religiosa è dato dal farsi sostanza del suono, che richiama la luce divina per stabilire un contatto tra questa e l’uomo.
La musica dell’installazione è tratta dal lavoro del compositore Mikhail Alperin, che ha messo insieme i canti dei Tuva con quelli di un coro bulgaro. Negli anni Novanta fu infatti scoperto che questi due popoli hanno radici comuni e che abitavano alcune zone dell’Asia centrale. Durante le grandi migrazioni di 1.500 anni fa, il gruppo originario dei Tuva si divise per qualche ragione in due gruppi: uno finì nelle terre dell’attuale Bulgaria, l’altro nella repubblica russa che oggi chiamiamo Tuva in Siberia centro meridionale lungo il confine con la Mongolia.