Sabato scorso a Roma decine di delinquenti hanno guastato la manifestazione dei cosiddetti indignati, sfasciando vetrine, auto e lanciando il lanciabile contro le forze dell’ordine. Hanno indossato caschi integrali per non essere riconoscibili e proteggersi dalla reazione degli agenti. Non una mascherina di plastica come quella di Londra, solidi caschi da motociclisti. E da questo dato bisognerebbe partire prima dei tanti bla bla su chi fossero o da dove fossero saltati fuori.
Prima ancora di lanciare sampietrini e molotov, questi individui avevano già commesso un reato (non un semplice illecito). Il Codice Penale e la legge 152 del 1975, integrata dalla 155 del 2005, sono molto chiare in merito alle norme di pubblica sicurezza legate alla riconoscibilità delle persone:
È vietato l’uso di caschi protettivi, o di qualunque altro mezzo atto a rendere difficoltoso il riconoscimento della persona, in luogo pubblico o aperto al pubblico, senza giustificato motivo. È in ogni caso vietato l’uso predetto in occasione di manifestazioni che si svolgano in luogo pubblico o aperto al pubblico, tranne quelle di carattere sportivo che tale uso comportino.
Considerato che la devastazione degli arredi urbani non ha nulla di sportivo o di religioso (altro motivo che secondo il Consiglio di Stato giustifica la copertura parziale del volto), molti guastafeste potevano essere fermati probabilmente per tempo. Certo, inserirsi all’interno del corteo per andare a prelevare quelli coi caschi non sarebbe stato semplice per gli agenti, ma a giudicare dagli effetti della scelta di tenersi alla larga e intervenire solo a violenze iniziate forse si sarebbe potuto correre qualche rischio in più.
Sono almeno dieci anni che si vedono in questo tipo di manifestazioni personaggi poco raccomandabili bardati come a un torneo medievale, e sono almeno dieci anni che non vengono fermati e invitati a scoprire il volto e farsi riconoscere prima che inizino a spaccare tutto. Ripartiamo da lì?