Quelli della DDR lo capirono meglio degli altri e la chiamarono Trabant, satellite, compagna di viaggio. Non ne produssero molte, appena tre milioni in quasi trent’anni, e chi se ne poteva permettere una spesso doveva aspettare mesi interi prima di poterla ritirare e portare la famiglia a Vattelapescagrad. Andava trattata con cura, la compagna di viaggio, ché i ricambi erano difficili da trovare. Chi aveva una Trabant l’accudiva con cautela e sviluppava una certa dimestichezza con la meccanica, la cura della carrozzeria, la manutenzione delle gomme, la sostituzione delle lampadine dei fari, della catena di trasmissione, se necessario.
Qui, oltre il Muro, c’erano il consumismo e la voglia di cambiare auto dopo qualche anno. Di là, dall’altra parte del Muro, erano più fedeli alla loro compagna di viaggio, o forse avevano meno alternative: finché continuava ad avviarsi, a superare le salite, gli inverni gelati, i fortunali d’estate, le strade sterrate, finché continuava a sputare nuvole azzurre di fumo, ad ansimare in un sorpasso, finché consentiva a Tizio di andare a trovare la sua famiglia, finché c’erano benzina da comprare e i soldi per comprarla, non c’era motivo di acquistare una nuova Trabant.
E valeva per tutti quelli che ne avevano una. D’accordo, quasi tutti, e forse sto mitizzando la faccenda, però i numeri non mentono. Una compagna di viaggio della DDR su quattro ruote finiva dallo sfasciacarrozze, o iniziava una nuova vita come rudere o pollaio, mediamene dopo 28 anni di onorato servizio e chissà quante migliaia di chilometri.
Una è arrivata al Museo dell’Auto di Torino, da poco rimesso a nuovo in occasione dei 150 anni dell’Unità d’Italia, ed è lì in mostra affianco a una ricostruzione del Checkpoint Charlie, quello famoso del Muro di Berlino. Prima del restauro radicale degli ultimi anni, il museo era un cimitero per automobili. Un enorme garage con le auto parcheggiate in ordine più o meno cronologico, dalle prima carrozze a vapore al modello più recente di Ferrari da competizione. Impolverate, male illuminate, le auto se ne stavano lì e mostravano i loro languidi fanali ai pochi visitatori e sopportavano gli scalmanati delle scolaresche, che non mancavano di toccare questo, smanacciare quell’altro e all’occorrenza staccare qualche adesivo.
Poi nel 2007 sono arrivati l’architetto Cino Zucchi e lo scenografo franco-svizzero Francois Confino, quello dell’allestimento del Museo del Cinema nella Mole, e le cose sono cambiate. Insieme sono riusciti a superare il problema di fondo di qualsiasi museo dell’auto, quello di mostrare fermi e immobili oggetti che sono stati studiati e realizzati per muoversi, per fare rumore, puzza e casino. Le automobili sono immerse in nuovi ambienti con costruzioni scenografiche efficaci e divertenti che ti fanno dimenticare il fatto che loro, le auto, continuano a starsene lì ferme immobili.
Una parte del museo è dedicata alla nascita delle auto, dal loro disegno alla produzione, ma la sezione sicuramente più interessante del museo è al secondo piano. Lì, con fantasia e ingegno, Confino ha rappresentato il nostro rapporto con le automobili da quando sono nate ai giorni nostri. Il percorso mostra l’evoluzione dell’auto da prodotti per élite, buone per trasportare chi di soldi all’epoca ne aveva tanti o era pronto per compiere grandi imprese come la Pechino – Parigi, a mezzi di trasporto di massa. Gi anni delle auto per tutti dalla Topolino in Italia al Maggiolino, simpatico e pacioso macchinone saltato fuori nel periodo più tremendo della storia tedesca, quello dei nazisti. E la storia continua con le meraviglie del design della tecnica, come la DS 19, il Transporter per gli Hippie e l’italiana Fiat 600 Multipla per portare la famiglia in vacanza, o la frutta al mercato.
Ogni periodo storico è ben illustrato con immagini, filmati, ricostruzioni e cartelli brevi e chiari per spiegarti cosa stai osservando e per farti capire una cosa importante, che diamo spesso per scontata: nel bene e nel male le auto sono quei non luoghi dove passiamo un sacco di tempo, dove nascono e finiscono gli amori, e le vite delle persone, a volte. Sono una parte della nostra storia, della nostra esistenza. Trabant.
Davide Gallarate
A Sfigograd le Trabant si rompevano dopo “solo” 15 anni…
jean
Sovietici?
La Traby nacque in DDR
Lordbrady
Due piccoli appunti. Il primo, come già è stato fatto notare, è che la Trabby è stata prodotta nella Germania dell’Est, nella DDR e non nell’URSS. Secondo appunto, squisitamente tecnico. La Trabby non ha cinghia di distribuzione ma una catena di distribuzione, simile alla catena di trasmissione delle moto. Sembrerà banale, ma è stato li il punto di forza di quella macchina.
emanuele menietti
sì, certo, era nella DDR area di influenza sovietica, intendo. la cosa della catena di trasmissione non la sapevo e correggo lesto, grazie!
delio
scusa, ti stai arrampicando sugli specchi. che vuol dire che la ddr era nell’area di influenza sovietica? sarebbe come se parlassi di una 500 e la spacciassi per americana. tra l’altro, la trabant è stata esportata in polonia, cecoslovacchia e ungheria, ma non mi risulta sia mai stata esportata in unione sovietica. e infine: trabant è una parola assolutamente tedesca, non russa: satellite in russo si dice (ovviamente, direi) спутник.
Carlo Meis
Delio, ma impara a leggere. Non c’è scritto da nessuna parte che era una parola russa, eh. E poi si parla del muro di Berlino, sveglia! Se poi vuoi negare che la DDR faceva parte del blocco sovietico, fai un torto alla tua intelligenza. 😉
svalbard
Stavo anch’io per operare una profonda revisione alla mia memoria storica, o alternativamente a rilevare l’errore… in effetti la Trabi è il simbolo della fu DDR, con l’Unione Sovietica non c’entra proprio niente… al massimo la famigliola ci andava in vacanza a Karl Marx Stadt… (o anche no, dato che mi pare si trattasse di una città industriale…)
delio
“I sovietici lo capirono meglio degli altri e la chiamarono Trabant”. sic. basta questo.
emanuele menietti
buono, pubblico. non mi arrampico sugli specchi, delio, avevo in mente un senso diverso per la frase iniziale, la ddr era stata proclamata nel settore sovietico di berlino e benché fosse poi autonoma aveva le truppe dell’URSS nei suoi confini, ma a questo punto direi che era poco chiaro. e quando è così si cambia e basta. più ddr per tutti.
delio
apprezzo la modifica. a questo punto suggerirei soltanto di cambiare anche “vattelappescagrad”, che ora non ha piú alcun senso. proporrei “vattelapesken” oppure (per i conoscitori di sassonia e brandeburgo) “vattelapeskow”.
delio
(poi, visto che il tono si è disteso, mi piacerebbe entrare nel merito. il punto è che il fatto che la ddr fosse nel blocco sovietico non vuol dire che tutte le cose gliele facessero i sovietici. è vero piuttosto il contrario: era stato deciso dagli alleati che la germania pagasse le riparazioni di guerra soprattutto in macchinari (del resto, la germania postbellica non era in grado di pagare in valuta), e questo ha portato al trasporto di intere linee di produzione dalla germania alla russia (è il caso, per esempio, della moskvitch 400/opel kadett). per quanto mi risulta, la trabbi era tutta frutto dell’ingegno ingegneristico tedesco, che si scontrava ovviamente con le durissime condizioni economiche e produttive dei primi anni ’50; e, come dice lordbrady, era a suo modo innovativa, visto il contesto storico-tecnico (per esempio, è stata una delle prime auto con accensione elettronica). ridurla ad un’auto basata su un progetto regalato dai russi ai tedeschi è scorretto storicamente e triste per la germania. il vero problema della trabant è stato il ridottissimo sviluppo di cui è stata fatta oggetto nel corso dei decenni, molto inferiore a quello apportato a tutti i modelli costruiti nel resto del blocco orientale.)
Antonio
Visto che non sopporti la casta dei giornalisti, evita di imitarli scrivendo di cose che non conosci come se le conoscessi: la Trabant ha un motore a due tempi con catena di distribuzione. Voglio vedere come facevano a cambiare l’olio del motore.
emanuele menietti
antonio, mi sa che sei rimasto a una versione vecchia del pezzo, aggiornato su segnalazione di lordbrady. ciao.
(grazie, delio)
paoloP
certo che qui si va presto fuori tema. 😀 ho visitato il museo, mi è piaciuto moltissimo, come torino del resto, non pensavo fosse così bella. bel pezzo, guarderò la mia auto con occhi diversi domattina in coda in tangenziale.
L.
comunque i tedeschi dell’ovest avevano (e continuano ad avere) la mercedes……
tutta un’altra storia…..