In stazione gli altoparlanti parlano sempre al plurale e i viaggiatori sono sempre signori. Preghiamo i signori viaggiatori di raggiungere i monitor indicanti il loro numero di carrozza per velocizzare le operazioni di imbarco. Pfff, penso io, sicuramente il treno si fermerà a venti metri di distanza dal punto indicato dal monitor, vatti a fidare. Il Frecciarossa invece arriva e sbaglia di una spanna appena, il numero è il dieci e sotto al monitor che lo indica si apre la porta della carrozza dieci.
Felice di essermi sbagliato salgo a bordo e raggiungo il posto 15, il mio alleato contro la gravità per i successivi 40 minuti. Qualche istante dopo, il treno abbandona la stazione interrata e guadagna velocità nelle viscere di una Torino ancora sonnacchiosa e destinata ad affrontare un’insolita giornata di marzo con la neve. Assonnato, forse più della città, osservo nel riflesso del finestrino il tizio barbuto seduto davanti a me: con gesti lenti e misurati, estrae da un piccolo sacchetto di plastica un vecchio walkman, inforca le cuffie, pigia il tasto play e le note di Vivaldi iniziano a confondersi con il rumore ritmato del vagone sulle rotaie. Moderno il treno, datato il supporto.
Terminata la galleria, il tizio scompare di colpo dal vetro e lascia spazio alla luce fredda e azzurra della campagna innevata. Scaccio dalla mente i pensieri sul lavoro da poco lasciato, sui cambiamenti in vista che mi attendono e inizio a raccogliere qualche idea nuova sul mio taccuino.
Il tizio che si è portato Vivaldi in treno è arrivato al primo movimento dell’Estate, pensando all’ironia del momento mi ritrovo a guardare il finestrino. Il convoglio sfreccia veloce spostando la neve e il ghiaccio sulla massicciata, pare quasi che galleggi su una nuvola di gelido vapore. Siamo entrambi sospesi, verso la meta.