Mentre l’hostess descrive con sapienti mosse da mimo d’altri tempi la solita tiritera sulle uscite di sicurezza e sulle mascherine per l’ossigeno, l’aeromobile guadagna lentamente la pista per il decollo, passando attraverso numerosi raccordi congestionati come un impermercato il 24 di dicembre. Osservo incuriosito il fitto andirivieni di quegli incredibili mezzi creati apposta per consumare la loro esistenza in cattività negli aeroporti, in attesa che la fila di aeroplani prima di noi spicchi il volo per lasciarci libera la pista.
Finalmente l’aereo ha la lunga lingua di asfalto davanti a sé completamente libera e inizia ad accelerare per vincere la gravità e librarsi nel cielo sopra Parigi. Con quel labile filo di apprensione che pervade qualsiasi bipede privo di ali, lancio un’occhiata dal finestrino al motore e noto che emette un fumo più nero e denso del solito. L’aereo continua la sua corsa a terra ancora per qualche centinaio di metri e finalmente decolla, ma qualcosa non va come dovrebbe. Il motore di destra, quello a pochi metri dal mio naso, vibra e non sembra essere in grado di raggiungere la potenza generalmente utilizzata per prendere quota. Nessuno a bordo sembra dare particolare importanza a quell’enorme cilindro di metallo appeso sotto l’ala che continua a sputare fumo nero, sarà solo autosuggestione, penso, mentre mi accorgo di avere le mani gelide e sudate. Un coniglio volante.
Nei quindici minuti seguenti, tra i più lunghi della mia vita, lo stramaledetto Airbus azzoppato compie continue virate per mantenersi vicino all’aeroporto, in attesa che a terra sia tutto predisposto per il nostro atterraggio di emergenza. Il motore di destra continua a fumare come un turco tra una giravolta e l’altra, lo scruto dal finestrino e intanto mi accorgo di non avere paura, ma di essere abbastanza indignato: non ci si schianta come moscerini nella campagna francese a 20 anni, “ho ancora un casino di cose da fare!”.
Mentre continuiamo il nostro volo a bassa quota, il pilota ci avvisa di aver finalmente ricevuto l’OK per l’atterraggio e ci raccomanda di starcene seduti con la testa in avanti e di non preoccuparci, e non c’è frase al mondo migliore per far preoccupare qualcuno. L’aereo perde quota e oscilla vistosamente prima di toccare il suolo con una discreta violenza, la baracca resiste bene al colpo e inizia una lunga frenata. Poco prima di arrestarsi lievemente inclinato sulla pista, noto un’orda di camion dei pompieri e mezzi di soccorso che si accalcano affianco al velivolo.
Il motore incriminato, bontà sua, ha ormai smesso di fumare mentre alcuni tecnici lo osservano dalla pista. Dopo una decina di minuti, il drago di latta volante ferito viene tratto nella zona di parcheggio dell’Air France. Scendo dall’aereo e vinco la fortissima tentazione di inginocchiarmi e baciare la terra, un bel bacio alla francese con il Tarmac. Ma non c’è tempo, un’oretta e si riparte; forte della statistica, o della disidratazione, non mi sudano più le mani.