«Vedi? Qui balla tutto e non va bene. Un bel taglietto, sposto questo di qua, recido qui in basso, poi cucio e torni come nuovo. Una menatina, una cazzatella!»
Disegnava con una biro blu le mosse che qualche settimana dopo avrebbe compiuto con il bisturi. Sicuro e dinoccolato, l’ortopedico tracciava righe sul mio ginocchio mentre lo osservavo tra l’inquieto e l’incuriosito. Poco più in là, su una seggiola di pelle ormai crepata e rinsecchita, mio padre osservava annuendo la lezioncina di anatomia su suo figlio.
Terminata la visita uscimmo dalla stanza in silenzio, un poco frastornati dalle valanghe di parole con le quali il luminare ci aveva bonariamente investito. Non ero molto felice all’idea di farmi squartare un ginocchio. Rimuginavo sulla degenza in ospedale, sui giorni di fisioterapia e su quel viaggio in America così vicino, eppure così a rischio per via dell’operazione.
Alla fine del corridoio l’inquietudine si era ormai impossessata di me, mentre osservavo mio padre che con la sua falcata sicura raggiungeva l’uscita della clinica. «Arrivederci, signora!» disse con enfasi alla receptionist per poi infilarsi con sicurezza nello stanzino dello scope. Il suo sguardo stupito fu la miglior cura quel pomeriggio. Risi di cuore per cinque minuti e ringraziai il cielo per avermi regalato un papà così.
Unico.