Era più grande di quanto potessi immaginare il campo. Nel silenzio di quella fresca mattina d’estate, pareva quasi estendersi oltre la sua reale dimensione, raggiungendo quella infinitamente più grande del dolore che tra quelle mura si era consumato.
Quel luogo era stato un crocevia di storie, umanità e sofferenza. Un brulichio di uomini privati di tutto: cibo, acqua, affetti, ma soprattutto della dignità. Ora, a distanza di sessant’anni, poche persone si aggiravano tra i blocchi del campo in composto e commosso silenzio, per cogliere l’assenza di chi lì aveva perso tutto e scontato sulla propria pelle la banalità del male.
La ghiaia sulla stradina che conduceva agli edifici di Dachau risuonava tetra a ogni mio passo, mentre un nodo in gola saliva inesorabile. Passo dopo passo. Per quanto fossero evocativi e densi di verità terribili e inimmaginabili, nessuno dei libri che avevo letto sull’Olocausto mi aveva realmente preparato per quel viaggio nel dolore. Era tutto drammaticamente più vero del vero.
Il verde carico e vitale dei prati si contrapponeva al grigiore di morte delle capanne e degli edifici in cui si consumarono le esistenze di circa 200.000 persone, colpevoli solo di essere venute al mondo. Enormi e rudimentali scansie a tre piani costituivano i dormitori per il riposo di centinaia di uomini e donne. Ammesso che dormire con le proprie ossa sulle dure assi di legno umido e gelato costituisse davvero un’occasione per riposare.
Mentre osservavo in silenzio, realizzavo come ogni minimo dettaglio nel campo fosse stato studiato con una maniacale perizia per la crudeltà. Due fontanelle piazzate al centro di una stanza trasformavano una spoglia baracca in un "Lavatoio". Venti sanitari, messi ordinatamente su due file in un corridoio costituivano i "Servizi igienici". Ogni cosa aveva un nome ed era scrupolosamente etichettata, indicata e classificata. Un taylorismo del male per il male.
Anche il forno crematorio aveva la sua etichetta. Con metodo e precise procedure, nei forni del campo furono inceneriti i cadaveri di trentamila prigionieri. Spettava agli stessi reclusi ardere i loro compagni di sventura e assistere, sempre all’interno dell’edificio per la cremazione, alle impiccagioni dei condannati.
Lungo il viale centrale che conduce al monumento in ricordo delle vittime di Dachau, cercavo invano una motivazione, qualcosa in grado di spiegare davvero la crudeltà e la follia umana. Forse una risposta c’era, ma non fui in grado di trovarla. Del resto, una valida spiegazione alla banalità del male non cambierebbe nulla di quella grande tragedia che fu l’Olocausto. Trovare una motivazione razionale alla crudeltà non cancella gli infiniti dolori che essa ha provocato. Ricordare, conservare la memoria di che cosa furono Dachau, gli altri campi di concentramento e sterminio e la Shoah, è forse l’unica vera risposta.
Giunto al memoriale di Dachau, mi colpì la semplice scritta apposta su un’enorme lastra di pietra: "Mai più". Una sintesi asciutta e definitiva di cosa era stato quell’angolo di inferno in Terra e un monito per le nuove generazioni.
Si era alzata una lieve brezza mentre percorrevo per l’ultima volta il viale del campo. Per un istante, il silenzio di Dachau fu rotto dall’innocente risata di un bambino. Ne fui felice.